The Arctic Game

Si parla molto, e molto spesso solo per empatia, del riscaldamento globale, dello scioglimento dei ghiacci e della tragica ed ormai prossima scomparsa (si parla addirittura del 2015) degli orsi bianchi e delle volpi polari.

Si parla molto poco, invece, delle conseguenze strategiche, politiche, militari ed ambientali che sicuramente deriveranno dall’apertura alla navigazione delle rotte polari, e dalla corsa, ormai lanciata, per l’accaparramento delle ingentissime risorse alimentari e minerarie che l’Artico possiede.

Come molto apprezzabilmente informa l’Eni, che all’argomento ha dedicato l’intero numero 21 (Marzo 2013) del magazine Oil, l’Artico – ovverosia lo spazio di terra, mare e ghiaccio a nord del Circolo polare artico (66° latitudine nord) – presenta luoghi idonei all’installazione di missili balistici, oltre che di sistemi di difesa e prevenzione antimissilistica e altri mezzi di dissuasione strategica, che la scomparsa dei ghiacci renderà disponibili.

In campo minerario, l’Artico vanta ingenti riserve di carbone, minerali ferrosi, petrolio, gas, nichel, cobalto, titanio, bauxite, zinco, piombo, rame, oro, argento, platino e diamanti. E, nel settore alimentare, gamberi, granchi della neve, merluzzi, aringhe, sardine, salmoni e trote.

Nel solo settore petrolifero, secondo una ricerca condotta nel 2008 dall’U.S. Geological Survey Circum-Arctic Resource Appraisal e da un panel internazionale di esperti in 33 province geologiche (cito sempre da Oil), l’Artico possiede, distribuito in 60 grandi giacimenti, «il seguente potenziale inesplorato: 82 miliardi di barili di petrolio (12 per cento delle stime mondiali complessive), circa 47 trilioni di metri cubi di gas naturale (30 per cento delle stime mondiali complessive), 44 miliardi di barili di gas naturale liquefatto (20 per cento delle stime mondiali complessive). In totale, circa 403 miliardi di barili di petrolio equivalente (20per cento delle stime mondiali complessive).»

E la corsa allo sfruttamento di tutte queste preziose (e finora intatte) materie prime è già cominciata.

Nel 2012 Arcelor Mittar, la più grande acciaieria del mondo, ha ottenuto l’autorizzazione per avviare un progetto da diversi miliardi finalizzato allo sviluppo della prima miniera di materiali ferrosi sull’Isola di Baffin. Shell, per parte sua, ha pagato oltre 2 miliardi di dollari per licenze di esplorazione nell’Artico dell’Alaska. E Shell non è certo la prima compagnia petrolifera a metter piede nell’Artico: «la ricerca di petrolio e gas nella regione non è una novità, essendo già praticata in un modo o nell’altro da decenni. Le attività di esplorazione e sfruttamento onshore e offshore si sono intensificate negli anni ’60, soprattutto in Alaska (Purdhoe Bay, 1967) e in Russia (Tazovskoye, 1962).»

Nei cantieri navali russi prosegue attivamente la costruzione di piattaforme petrolifere in grado di operare nelle situazioni atmosferiche estreme dell’Artico.

Il “futuro predatorio” dell’Artico, insomma, è già cominciato, e c’è da giurarci che nessuno lo fermerà.

Anche se i pericoli sono immensi.

Dice David Yarnold, presidente della National Audubon Society, che monitora le centinaia di migliaia di uccelli che nidificano nelle lande selvagge dell’Alaska: «I tentativi di esplorazione dell’Artico condotti da Shell Oil negli ultimi mesi gettano benzina su un fuoco già alto. Secondo gli scienziati, si sa ancora così poco sulle modalità di intervento per arginare una fuoriuscita di petrolio o risolvere altri disastri in queste acque gelide, che la perdita della Deep Water Horizon nel Golfo del Messico sembrerebbe una passeggiata in confronto a eventi simili nei mari artici.»

Charles Emmerson (cito sempre da Oil), ricercatore senior del gruppo di esperti di Chatham House a Londra, sostiene in uno studio dettagliato commissionato dai Lloyd’s di Londra che «la ripulitura di eventuali fuoriuscite di petrolio in Artico, particolarmente nelle aree coperte dai ghiacci, presenta numerosi ostacoli, che complessivamente considerati formano un unico rischio difficile da gestire.»

In un altro studio, la società di revisione contabile e consulenza amministrativa Ernst & Young «elenca gli alti rischi e i costi delle trivellazioni nell’Artico, dal clima rigido alla scarsità di infrastrutture e dai tempi di lavoro lunghi al contenimento e al recupero delle perdite di petrolio in contesti lontani e ostili.»

Il professor Marcel Gubaidullin, direttore dell’istituto per il petrolio e il gas dell’Università federale settentrionale (Artico) della città russa di Arkhangelsk ha così descritto in una trasmissione dell’emittente radiofonica Deutsche Welle la decisione di sospendere la realizzazione dell’importantissimo progetto Shtokman nel Mare di Barents: «Il giacimento Shtokman si trova 600 km al largo di Murmansk. Un elicottero non può arrivarci nemmeno con il serbatoio pieno. Quindi sarebbe necessario costruire una piattaforma temporanea in mare aperto, oppure si dovrebbe fare scalo nell’isola di Nowaja Semlja. Inoltre in quell’area l’acqua è profonda 340 metri. Se piantassimo sul fondo del mare la Torre Eiffel, non ne emergerebbe neppure la punta. Infine in quella zona il mare è molto tempestoso, con onde alte fino a 27 metri d’altezza e temperature che nelle diverse stagioni oscillano tra -55° e +35°. Nei russi è ancora vivo il ricordo della tragedia del 2011, quando la piattaforma galleggiante Kolskaya si rovesciò durante una tremenda bufera e affondò nel Mare di Okhotsk subito dopo avere concluso una prospezione per conto di Gazprom al largo della penisola di Kamchatka. Le perdite (53 persone tra morti e dispersi) sono le più alte nella storia degli incidenti avvenuti nel settore petrolifero russo.»

Paul Betts, l’autore dell’articolo dal quale ho tratto molte delle precedenti citazioni, fa notare che «Gli studiosi sono addirittura d’accordo che a tutt’oggi nessuno ha ancora compreso esattamente come eliminare dalla banchisa polare o da blocchi di ghiaccio isolati le conseguenze di una fuoriuscita di petrolio.»

E questo è ancora niente!

Banchisa polare e scarsità di infrastrutture a parte, il vero pericolo per “l’ultimo luogo incontaminato del pianeta” è il fatto che, come scrive Colin Crouch (Post-Democracy, Polity Press/UK, 2004),«Poiltics is really shaped by interactions between elected governments and élites that overwhelmingly represent business interests» («la politica è realmente modellata dalle interazioni fra i governi eletti e le élites che in modo sopraffacente rappresentano interessi di affari»). Cioè dalle élites che possono entrare―molto spesso con un bel mazzo di soldi o di voti in mano―nelle ‘stanze che contano’ (o nelle ‘stanze dei bottoni’, come era solito dire Nenni), e lì pretendere qualsiasi legge o contratto che torna loro comodo avere.

E non parlo per ipotesi, o infondati timori, ma per dati di fatto ed esperienza vissuta in prima persona. Come Colin Crouch, del resto.

Qui in Italia, come, mai contraddetto, ho documentato nel mio libro: L’inquinamento d’oro, come si ruba – anche – sull’emergenza ambientale, il nostro Patrio governo ha concesso e di recente anche rinnovato, con procedura sicuramente illecita, il lucroso appalto per la difesa del nostro mare e delle nostre coste alle Società Ecolmare e Castalia solo perché queste avevano pagato (in anticipo) sostanziosissime mazzette (mazzette, tanto per essere precisi, da Lire Italiane 2miliardi o 2miliardi e mezzo) ai Ministri Prandini e Vizzini. E poi chissà quanti altri mazzettoni ancora.

Negli Usa, come ho documentato nel mio più recente libro: Default! (frogs can jump, not fly), il Congresso ha stabilito per legge che la “effettiva capacità di recupero giornaliera degli apparati per il recupero degli idrocarburi” è determinata (dall’utente) moltiplicando per 24 il numero arbitrariamente scritto dal costruttore sul nameplate (nameplate capacity) della macchina. Ovvero dalla capacità di pompaggio della pompa collegata.

Non so se è perfettamente chiara, anche per il Lettore non esperto, la incredibile idiozia del metodo stabilito dal Congresso degli Stati per determinare la “effettiva capacità di recupero giornaliera degli apparati per il recupero degli idrocarburi”, e per questo riporto, poco elegantemente citandomi, quello che al proposito ho scritto nel mio sopra citato libro:

«Insomma, un cretino di petroliere od armatore prende una statuetta di Paperino, la monta su un galleggiante (diciamo un tronco d’albero od un paio di barili vuoti), gli piazza fra le mani un vecchio tubo di ghisa, ci appiccica sopra una piccola tabellina sulla quale è scritto che quell’affare lì può recuperare 1000 barili di olio per ora, il governo degli Stati Uniti moltiplica quel numero per 24 e tutto felice dice―o piuttosto, ha tutto felice stabilito per legge―che quel Paperino là è capace di recuperare meccanicamente 24.000 barili di olio al giorno. Senza neppure considerare le condizioni del mare o del tempo (temperatura, vento, correnti, presenza, forma e periodo delle onde), giorno o notte, estate o inverno, il tipo e lo spessore dello strato di olio, la distanza dalle coste, le condizioni di propagazione o le specifiche caratteristiche geografiche dell’area dove lo spill è accaduto.

Allo stesso modo, loro ci attaccano sopra una pompa capace di pompare 1000 barili di acqua per ora, e – automaticamente – per il governo degli Stati Uniti quel Paperino là è capace di recuperare 24.000 barili di olio per giorno.

Fantastico!»

…Ed è stato così che, qui in Italia, non è stata recuperata neppure una goccia delle 134.000 tonnellate di greggio finite in mare a seguito del disastro della superpetroliera Haven (e che, secondo i risultati di perizia disposta dal Pm di Genova, centinaia di migliaia di persone possono così essere state raggiunte da agenti cancerogeni attraverso pesci e crostacei). E che l’idrocarburo versato dalla Lombarda Petroli nel Lambro ha potuto indisturbato raggiungere l’Adriatico.

E che, negli Usa, la Marine Spill Response Corporation (la Corporation, cioè, messa su dai petrolieri e dalle compagnie armatoriale per rispondere agli oil spills) ha potuto, prima, ‘legalmente’ dichiarare di essere in grado di recuperare, anche da un mare in tempesta, straordinariamente immense quantità di idrocarburi (v. la tabella allegata), per poi non recuperare neppure una mezza bottiglia del petrolio finito in mare a seguito del disastro della Deepwater Horizon. Avvenuto, fra l’altro, perché la BP, secondo un documento fornito al New York Times da un investigatore del Congresso, aveva optato per un tipo di cementazione del pozzo «che la Compagnia sapeva essere il più rischioso fra diverse opzioni.»

Il tutto interessatamente ignorando (o facendo finta di ignorare) le offerte da me ripetutamente proposte e che, come dimostrano le relazioni rilasciate dai massimi istituti ufficiali di certificazione al termine di un estesissimo e controllatissimo ciclo di collaudi, avrebbero di certo grandissimamente ridotto e bonificato questi e tutti gli altri disastri petroliferi finora accaduti.

Il vero, lo straordinariamente ed attualmente vero pericolo per l’Artico, insomma, non sono i ghiacci o le terribili condizioni operative, ma l’avidità e la straordinaria grettezza dei Petrolieri e di tutti (o quasi tutti, e quelli che non lo sono non contano niente) i politici. Per non parlare degli alti ed altissimi burocrati.

Dalla grettezza e dall’avidità di chi in quelle circostanze dovrebbe esercitare capacità di previsione, gestione e controllo del rischio in una larga visione strategica e gli interessi delle collettività e dell’ambiente.